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Anche i rom finirono nei forni crematori

Giorno della memoria, conoscere e riconoscere per non ripetere e dimenticare gli orrori nazisti

Di Fiore Manzo

 

L’Istituzione del “Giorno della Memoria” in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti è del 20 luglio del 2000 e anche in questo caso non si fa nessun riferimento ad altri internati, fra cui le comunità Rom e Sinte. Era accaduto anche precedente con la legge n°482 del 15 dicembre 1999 “ Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche“ che escludeva la minoranza romanì dal riconoscimento e prosegue anche con l’istituzione del “giorno della memoria”. Più che parlare di memoria per quanto concerne le comunità romanès credo sia più corretto parlare di “conoscenza”. Il «samudaripè», che in lingua romanì, significa «tutti morti» o altrimenti conosciuto con il termine «Porrajmos», ovvero, «divoramento» non trova altresì spazio, spesso, nei libri di testo. Se mai è dedicato all’olocausto Rom e Sinto una nota a margine. La popolazione romanì continua, per mancanza di conoscenza, ad essere misconosciuta e pensata meramente attraverso stereotipi. In Italia, nello specifico, oltre seicento anni di convivenza non sono sufficienti per un dialogo Pacifico e Reciproco impregnato di rispetto e della volontà di conoscersi. Non sono nemmeno di aiuto le leggi regionali e la relativa istituzionalizzazione dei “campi nomadi” che dovrebbero fare riflettere visto che la loro nascita è risalente a pochi anni dopo la orribile barbarie dei campi di sterminio. L’idea che, gli appartamenti alle comunità romanès, siano “vagabondi”, “ladri”, “asociali” e “privi di morale” permane ed è appropriato, evidenziare, che l’internamento dei Rom e dei Sinti nell’epoca nazi-fascista non deve essere considerata come l’unica forma di antiziganismo visto che in altre forme si sono susseguite, ovunque, dal Rinascimento in poi mediante bandi di espulsione, rastrellamenti ecc. Fa riflettere, altresì, che fortunatamente non tutte le comunità romanès in Italia siano state internate, sebbene la Circolare n. 63462/10 dell’11 settembre 1940 che ne richiedeva l’internamento e in alcuni casi hanno combattuto per l’esercito Italiano come le diverse persone, tra cui il mio bisnonno, della mia comunità a Cosenza. È necessario chiedersi cosa resti nella memoria delle persone tenendo in considerazione il “misconoscimento”della popolazione romanì se non dell’oblio coatto identitario perpetuato da molti appartenenti alle comunità romanès con la finalità di essere accettati. L’identità romanì, sempre più vista come malattia che come ricchezza. C’è chi è forte e resiste e chi è debole e soccombe per le idee della società maggioritaria. Lo spirito resiliente ha albergato e continua ad albergare nella psiche delle comunità romanès ma spesso non è bastata e non basta. C’è un aneddoto che mi è stato raccontato da mia nonna materna su una zia che per farsi rispettare fingeva di essere fascista e in diversi casi questo le è stato di aiuto ma il rischio nel mettere in scena ciò che non si è, alla stregua del mimetizzarsi, ritengono siano soluzioni effimere e dolorosi oltre che ingiuste. Se mai la strada è quella della conoscenza e riconoscenza per non dimenticare e non ripetere.

 

 

Da Il Meridione 27/01/2019

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